2022


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Sergio Mandelli
VISITA ALLO STUDIO DI:
ALESSANDRO TRAINA
Innanzitutto una considerazione: non venitemi a dire che non vi sono bravi artisti. Grazie alla mia curiosità bulimica, invece, mi rendo conto esattamente del contrario: di qualità ce n’è, eccome.
Fatto sta che quando sono entrato nello studio di Alessandro Traìna, classe 1957, sono rimasto colpito dal suo lavoro. Ci ho pensato un po’ su nei giorni successivi: che cosa ho notato, in sintesi?
Tre parole: varietà, rigore e coerenza.
Innanzitutto varietà, sia nelle opere esposte sia nei materiali utilizzati.
Le prime opere che si impongono sono sculture metalliche formate da grossi tubi lucidi legati da fasce, che sembrerebbero alludere a oggetti di design, se non fosse che si tratta di strutture sbilenche assolutamente inutilizzabili e perdipiù ingombranti.
Poi si passa ai dipinti più recenti, realizzati su un materiale sintetico dall’aspetto ruvido, arido, refrattario ad ogni brillantezza di colore.
Si continua con delle opere a parete, anche queste metalliche, dallo sviluppo nastriforme. E poi ancora carte strappate o ondulate, calamite, telai…
Varietà, dicevamo. Ma anche rigore. Si sente che dietro a ognuna di queste opere c’è un pensiero attivo, perennemente in fase progettuale, impressione presto confermata dalla gran massa di rotoli di carta che spuntano un po’ ovunque in questo laboratorio della periferia milanese. C’è tanta matematica, tanto disegno, tanta meditazione sparsa a piene mani in questa attività, che lui afferma essere cominciata nel 1986.
Infine, la coerenza. Sì, perché, nonostante la varietà denunciata, non è che si salti di palo in frasca; vi è qualcosa che lega nel profondo tutta la produzione di Traìna, qualcosa che i critici (tutti nomi importanti) hanno voluto legare perlopiù a riflessioni sullo spazio e sul tempo.
A proposito di tempo, Sant’Agostino diceva; “Se nessuno me lo chiede, so bene cos’è; ma se dovessero chiedermelo, non saprei spiegarlo”.
Ebbene, questa celebre citazione, Traìna la usa quando gli chiedono il senso del suo lavoro: effettivamente, come si fa a spiegare il lavoro di un artista? Si possono spiegare le intenzioni, i materiali usati, l’ambito culturale di riferimento, ma tutto questo non traduce minimamente l’impressione che si riceve dalla visione di un’opera d’arte riuscita.
Quello che posso dire è che nelle opere di Traìna c’è sostanza, vero nutrimento per la testa di chi lo sa apprezzare.
Da appassionato, il mio parere è che si tratta di un artista assolutamente da avere nella propria collezione.
Gabriele Landi
Intervista a Alessandro Traina
#paroladartista #alessandrotraina #intervistaartista
Gabriele Landi: Ciao Alessandro, spesso per noi artisti i primi sintomi di questa “grave patologia che chiamiamo arte” si manifestano già dall’ infanzia é stato così anche per te? Racconta?
Alessandro Traina: Sì. I primi sintomi si sono manifestati dalla terza media, i miei disegni guardavano alla pittura metafisica di De Chirico e Morandi ed ero il pupillo della prof di Educazione Artistica.
La patologia poi si è aggravata gradualmente, c’è stato un tentativo di soffocamento durante i primi anni di Architettura ma poi ha preso il sopravvento su tutti i fronti…
G.L.: Di fronte a questo dilagare hai proseguito i tuoi studi di Architettura o sei passato all’Accademia?
A.T.: Come dicevo ha preso il sopravvento; ho interrotto gli studi e mi sono concentrato sul lavoro artistico attraversando diverse fasi fino trovare un mio linguaggio. Non mi sono mai iscritto all’Accademia.
G.L.: Come dicevi prima i tuoi interessi erano agli inizi legati ad un certo tipo di figurazione, De Chirico, Morandi. Hai cominciato a muovere i tuoi primi passi nel sistema dell’arte gallerie, critici… con lavori figurativi?
A.T.: Beh, da quei primi interessi ai primi passi nel sistema dell’arte passarono più di dieci anni… però incominciai davvero proponendo opere figurative. Si trattava di immagini frammentate su varie tele sagomate che si componevano sulla parete, ma fu una ricerca che durò poco e non venne mai esposta. In breve iniziai a ridurre l’immagine fino a passare a forme essenziali che miravano all’ assoluto e con questo lavoro inizialmente pittorico iniziai a esporre.
G.L.: L’articolazione spaziale dei tuoi lavori trova origine nei tuoi studi architettonici?
A.T.: L’ architettura è rimasta comunque nei miei interessi ma non ritengo abbia mai interferito in tutta la mia ricerca artistica.
G.L.: Mi sembra che nei tuoi primi lavori, che passano dalle 2 alle 3 dimensioni, l’atto del dipingere giochi un ruolo centrale. Che importanza gli attribuisci?
A.T.: Era l’ultimo passaggio dalla pittura alla scultura. La tela diventa volume, porzione di spazio che racchiude uno o più elementi, e volumi diversi accostati tra loro diventano una sorta di archivio temporale. Non c’è più l’atto del dipingere che abbozza il soggetto, la pittura qui è soltanto disegno geometrico.
G.L.: Sembra che in questi lavori il colore passi da una valenza pittorica ad una valenza mimetica, imitando altri materiali e cosi?
A.T.: Non c’era una vera intenzione di imitare vari materiali ma ormai quasi tutte le mie immagini pittoriche erano diventate rappresentazioni di strutture realizzabili in tre dimensioni, cosa che mi portò inevitabilmente ad abbandonare la pittura e a cercare invece il modo e i materiali più adatti per realizzarle affinché trasmettessero esattamente lo stesso significato che volevo darle in pittura.
G.L.: Quando passi dalla rappresentazione degli oggetti agli oggetti veri e propri continui a realizzarli in prima persona o ti occupi della progettazione e la realizzazione viene affidata ad altri?
A.T.: Li realizzo io.
G.L.: Che importanza ha nel tuo lavoro l’idea di tensione, può essere in qualche modo associata all’idea di intensità?
A.T.: L’idea di tensione che si può inizialmente percepire, immagino che tu ti riferisca appunto alle mie prime sculture, è ingannevole. La tensione applica una pressione che deforma le cose, che è proprio quello che voglio evitare. La mia in realtà è una costrizione, è bloccare, è trattenere, è mantenere, tenere insieme, è fermare il momento per impedire un ulteriore decadimento. Forse si può associare lo stesso all’idea di intensità…
G.L.: Un’altra idea importante, e sempre molto presente in quello che fai, mi sembra quella della fisicità del toccare con mano. Puoi parlarne?
A.T.: E’ vero, questa fisicità è presente in diversi cicli di lavoro, non in tutti. In alcuni più datati ma anche in alcuni recenti, parliamo solo di opere a parete, il toccare con mano è riservato al collezionista o al gallerista più che allo spettatore, in quanto costretti ad assemblare l’opera, composta da più elementi, in una precisa composizione. A dire il vero nel ciclo Intervalli, quello più vecchio, la composizione era più libera, comunque fare parte della “costruzione” è anche il senso del lavoro. Al contrario nel ciclo recente dal titolo Insiemi l’opera già completa è composta da vari elementi in feltro, sovrapposti ma solo fissati in alto, che lo spettatore può anche sollevare per comprenderne la costruzione.
G.L.: Ti interessa l’idea di superficie, pelle, del lavoro? Mi sembra un’idea che ritorna in vari lavori quelli fatti con le calamite ad esempio che hanno delle parti in carta dipinta e strappata o quelli con i fogli lavorati con il pastello e cera.
A.T.: Non ho mai dato particolare importanza all’idea di superficie. Trovo che sia una peculiarità di chi fa principalmente pittura mentre il mio lavoro in tutte le sue espressioni è sempre scultoreo. Direi che infatti dò attenzione ai materiali che scelgo e tratto in base al significato dell’opera. Nel lavoro dei primi anni 90 e nella serie Intervalli ho usato la carta da spolvero per la sua praticità, la leggerezza per essere curvata dentro “gabbie” metalliche o costretta da calamite a nastro, il colore giallo pallido che meglio si adattava al nero delle strutture e al frottage con pastello a cera nero, sul pavimento del mio studio di allora, che voleva indicare un passaggio, un percorso svolto. Nelle serie Forma bianca, Inchini e Tempi vuoti, da fine anni 90 ai primi 2000, le calamite bloccano e riuniscono le parti di un foglio di carta strappata su un involucro di lamiera in ferro, ma il foglio è una particolare carta fatta a mano di un certo spessore ecc. che ha di per sé un suo fascino e un forte impatto estetico. Nell’insieme dell’opera e nel suo concetto era quello l’elemento che doveva risaltare. Il colore era solo una variazione che meglio si adattava alle serie.
G.L.: Nel tuo lavoro hai talvolta fatto ricorso a forme di derivazione geometrica talvolta anche con l’intento mi sembra di creare delle forzature, dei dissestamenti come per contraddirla è così?
A.T.: Ho sempre usato forme geometriche semplici come quadrati o rettangoli o cerchi ma non con l’intenzione cui ti riferisci. Come ho detto precedentemente non cerco una tensione o una forzatura, piuttosto un’ immobilità che ne conservi la forma, quindi l’essere.
INSIEMI 2019 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 119 x 119
INSIEMI 2019 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 70 x 70
INSIEMI 2019 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 60 x 60
INSIEMI 2019 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 119 x 119
INSIEMI 2020 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 98 x 98
INSIEMI 2020 acrilico e smalto su feltro su tavola cm. 98 x 98
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Alterazioni progressive, Collegio Cairoli Galleria Marco Fraccaro, Pavia
opere dal 1994 al 2017
a cura di Fabrizio Parachini
dal 21 marzo al 6 aprile 2019